Crescita Personale
Crescere significa migliorare sé stessi attingendo alle proprie risorse ed instaurare rapporti interpersonali significativi. Si tratta di sviluppare potenzialità insite nella persona e apprendere modalità positive per entrare in contatto con sé stessi e con gli altri.
L’appagamento personale, pertanto, implica forza, capacità di padroneggiare la propria vita, trarne soddisfazione e stabilire relazioni più soddisfacenti. Le persone apprendono a perseguire e raggiungere i loro desideri, bisogni, obiettivi nelle aree di valore della propria vita e nel rispetto degli altri. Questo garantisce armonia sociale, alta qualità delle relazioni e quindi benessere personale. Nella vita, però, possono presentarsi momenti di crisi, di difficoltà inaspettate che intaccano il proprio valore e lo stato generale di benessere.
In questi momenti può essere d’aiuto consultare un professionista per comprendere la natura del disagio percepito e gestirlo adeguatamente. La valutazione soggettiva dell’esistenza di un malessere è il primo passo da fare per ripristinare il giusto equilibrio, per contrastare il burn-out, e incrementare la crescita personale e professionale. Il benessere soggettivo, infatti, è la valutazione personale del grado in cui i nostri bisogni, obiettivi, desideri sono raggiunti. La valutazione è globale ed utilizza due componenti: affettiva e cognitiva.
La componente affettiva comprende la preponderanza dell’emozionalità positiva su quella negativa. La componente cognitiva concerne una valutazione globale della propria vita e anche la valutazione della soddisfazione in singoli ambiti (lavoro, matrimonio, genitorialità, etc.). In definitiva, la crescita personale è la ricerca di sé stessi dove il potenziamento delle proprie qualità incide sullo stato globale di benessere.
Alcune aree di crescita personale:
L’autostima è la valutazione che una persona dà di sé stessa e comprende: la fiducia in sé stessi, la consapevolezza del proprio valore e il rispetto di sé.
Ognuno di noi nasce capace di opinioni positive, ma è possibile che le esperienze della vita inducano a smettere di amarsi.
Le esperienze infantili infelici, le critiche o la mancanza di rinforzi da parte di adulti, di compagni sprezzanti o giudicanti, dell’ambiente, dei media, della cultura di riferimento o della società in generale, possono provocare sensi di inferiorità e una scarsa autostima.
Chi ha bassa autostima mostra scarsa fiducia nella propria persona e nelle proprie capacità; si sente spesso insicuro, non è in grado di contare su sé stesso e manifesta diverse paure legate soprattutto alla propria percezione di inadeguatezza e incapacità. L’autostima viene determinata da informazioni oggettive e soggettive, riferite a “tre tipi di sé”: il sé reale è la valutazione oggettiva delle nostre competenze; il sé percepito è la nostra valutazione del sé reale; il sé ideale è come desideriamo essere. Esso è influenzato dalla cultura e dalla società.
I problemi legati all’autostima nascono dalla discrepanza tra sé ideale e sé percepito. Se tendiamo a svalutarci, ci sentiamo troppo lontani da come desideriamo essere, il nostro modello ideale ci appare troppo lontano e irraggiungibile, e noi ne soffriamo.
Al contrario, le persone che si sopravvalutano sono convinte di essere come desiderano, hanno raggiunto il loro ideale, ma questa è più che altro la loro opinione.
L’autostima, influenza l’autoefficacia, cioè la consapevolezza di poter raggiungere obiettivi, influenza il tono dell’umore, le relazioni affettive, in generale influenza il successo nella vita e le scelte di ogni tipo. Gli indizi di bassa autostima sono: l’autocritica rigorosa, l’ipersensibilità alle critiche, l’indecisione, la paura del giudizio altrui, il perfezionismo, il senso di colpa, l’irritabilità, l’atteggiamenti ipercritico, l’anassertività e la depressione. È opportuno sottolineare, però, che l’autostima è un fattore dinamico che evolve nel tempo e subisce variazioni anche notevoli nel corso della vita.
Non si nasce con la giusta autostima, essa va piuttosto coltivata, curata, alimentata durante il corso dell’esistenza. Se una bassa autostima si dimostra un fattore di ostacolo nella vita di una persona, allo stesso modo un’autostima eccessiva può avere effetti deleteri. Una sana autostima si manifesta nella capacità di percepirsi e di rapportarsi a sé stessi in modo realistico, positivo, rilevando i punti forti e quelli deboli, amplificando ciò che è positivo e migliorando quello che invece non lo è. Significa anche essere in grado di ammettere che c’è qualcosa che non va quando le circostanze lo richiedono.
La sana autostima è indipendente dal giudizio degli altri, è caratterizzata da una profonda conoscenza di sé stessi, aiuta a mantenere i punti di forza ed a migliorare quelli di debolezza, promuove obiettivi stimolanti ma non eccessivi, spinge la persona al confronto con sé stessa e con gli altri. Ognuno di noi ha la capacità di raggiungere gli obiettivi che si è prefissato, a patto che siano realistici e scaturiscano dalla consapevolezza delle proprie potenzialità, non da desideri altrui o scelte ideali.
L’orientamento sessuale è un’espressione che si usa per descrivere l’attrazione sessuale, emotiva e sentimentale di qualcuno nei confronti di qualcun altro. A seconda dell’orientamento sessuale gli individui possono essere classificati in eterosessuali, bisessuali o omosessuali. Tutte le principali organizzazioni di igiene mentale sono d’accordo nell’affermare che l’omosessualità non è una malattia.
Nel 1973, infatti, l’American Psychiatric Association (APA) ha eliminato l’omosessualità dal Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. L’omosessualità viene quindi considerata un “orientamento sessuale non patologico”.
Può essere utile pertanto precisare che orientamento sessuale e identità di genere sono concetti diversi. L’identità di genere si riferisce al modo in cui ogni individuo si percepisce come maschio o come femmina, mentre l’orientamento sessuale riguarda l’attrazione di natura erotica nei confronti di maschi e/o femmine. Una delle più recenti e faticose conquiste della nostra civiltà è l’aver finalmente riconosciuto che non esiste un orientamento sessuale (etero, omo o bisessuale) che si possa considerare “patologico”. Non sono ancora chiari i meccanismi per cui identifichiamo l’oggetto della nostra attrazione sessuale in un partner dello stesso sesso, del sesso opposto o di entrambi.
Al momento la ricerca è orientata ad indagare gli aspetti biologici dell’omosessualità, anche se ancora non esistono prove a supporto di questa ipotesi. Sono noti, invece, i rischi di un eventuale trattamento mirato a cambiare l’orientamento sessuale, quali: depressione, ansia, comportamento auto-distruttivo. Le terapie mirate a modificare l’orientamento sessuale di una persona (le cosiddette “terapie riparative” o “di conversione”) non hanno un supporto scientifico e deontologico che sostenga la loro efficacia, piuttosto, come sostenuto dalle principali organizzazioni nazionali ed internazionali di salute mentale, creano un clima sfavorevole alle persone omosessuali e non rispettano il diritto fondamentale all’autodeterminazione di ogni individuo.
Un giusto approccio terapeutico deve aiutare il paziente omosessuale ad accettare serenamente il proprio orientamento sessuale e ad integrare pienamente tale orientamento nella propria personalità, sviluppando una positiva immagine di sé e superando i pregiudizi anti-gay instillati in lui dalla società (omofobia interiorizzata). Una volta che le sensazioni omoerotiche sono riconosciute l’individuo si confronta con il compito di dirlo agli altri.
Il coming out (ovvero l’auto-consapevolezza, la libera espressione, l’eventuale comunicazione del proprio orientamento sessuale) descrive il momento in cui la persona, prendendo consapevolezza della propria attrazione omoerotica, viene contemporaneamente bombardata da una serie di emozioni contrastanti, quali: panico, rabbia, depressione, curiosità, ansia, etc. Il coming out non è un processo univoco, ma dura nel tempo e varia da persona a persona. Ci sono individui che hanno fatto il coming out al lavoro, ma non nei confronti dei propri familiari, altri che lo hanno fatto solo nei confronti dei propri amici più intimi, altri ancora che sono apertamente gay. Ovviamente è un processo molto importante, che coinvolge non solo l’individuo omosessuale, ma anche le persone che gli sono intorno, offrendo a tutti un’opportunità di grande crescita emotiva.
Questo è un momento critico e le reazioni degli altri hanno un impatto potente sulla stima di sé. Le conseguenze di questo stato sono spesso invisibili all’esterno ma la persona teme ripercussioni, variazioni del proprio status e delle proprie opportunità. Compito del terapeuta in questa fase è quello di aiutare il paziente ad uscire da questo stato che lo inibisce e lo rende impotente di fronte agli eventi. Il terapeuta supporta, sprona, ascolta le difficoltà del paziente al fine di promuovere un percorso di crescita personale e di consapevolezza.
Mindfulness è un termine ripreso dalla lingua Pali, che significa “attenzione consapevole “; secondo Jon Kabat Zinn (2003), mindfulness è “porre attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, al momento presente e in modo non giudicante, non critico e di accettazione”.
Nata come tecnica per ridurre lo stress dato da malattie fisiche, dolori cronici o patologie psicosomatiche, la mindfulness si è dimostrata utile nella terapia della depressione, nelle nevrosi e nella terapia del dolore. Promuovendo l’apertura della mente e l’attenzione partecipe e non giudicante, permette di assaporare nuovi modi di conoscere e di essere, ascoltando più attentamente la propria personale esperienza, momento dopo momento.
Attraverso l’esercizio dell’osservazione non giudicante della propria esperienza (pensieri, emozioni e sensazioni fisiche) si può imparare a vedere da una nuova prospettiva e superare le abituali reazioni emozionali e i pensieri ricorrenti che tendono a mantenere i problemi. Guidando alla messa in discussione della propria visione del mondo (compresi gli automatismi disfunzionali che sottendono la psicopatologia) si facilita l’apprezzamento della pienezza di ciascun momento della propria esistenza.
Sviluppare un atteggiamento mindfulness nella vita di tutti i giorni ci consente di fare un’esperienza del mondo completamente nuova attraverso la consapevolezza, la conoscenza profonda del nostro corpo e gli schemi della nostra mente.
Nel corso degli ultimi anni, sono stati definiti in ambito clinico diversi trattamenti psicoterapici basati sulla mindfulness che includono un set ampio e articolato di metodiche e tecniche terapeutiche. Tali approcci non si propongono il controllo dei pensieri o la sostituzione delle immagini negative con immagini positive, ma incoraggiano i pazienti a permettere a questi sentimenti di delusione e di rimpianto “semplicemente di esserci” (MBCT, Segal, Williams, & Teasdale, 2002).
Tuttavia, è opportuno sottolineare che il concetto di “accettazione”, insito nella pratica della mindfulness, non deve essere confuso con quello di “rassegnazione”. Se la rassegnazione implica una rinuncia ad agire rispetto agli eventi, la mindfulness, al contrario, partendo dalla consapevolezza di ciò che si è, predispone a muoversi in direzione dei propri valori più profondi ed autentici. La pratica della mindfulness si propone, infatti, di aiutare a sostituire nella vita quotidiana comportamenti reattivi, automatici e distruttivi con scelte consapevoli ed appropriate al contesto.
Lo strumento centrale della mindfulness è la pratica della meditazione. Meditare è un’attività della mente che richiede tempo, energia, determinazione, fermezza e disciplina. Esistono diversi tipi di tecniche di meditazione basate sull’attenzione consapevole e presente: meditazione seduta (sitting meditation), esplorazione del corpo (body scan), meditazione camminata (walking meditation), yoga consapevole.
Gli effetti della meditazione sono ormai noti sia sul sistema nervoso centrale (miglioramento delle risorse interiori e della resilienza, innalzamento del set point emotivo) che sul corpo (miglioramento della pressione arteriosa, del sistema immunitario e della capacità di rilassamento neuromuscolare). Siamo abituati a non prestare attenzione alle cose che facciamo perché agiamo, pensiamo e sentiamo in modo automatico utilizzando vecchi schemi strutturati nella nostra mente in modo passivo e inconsapevole.
L’osservazione attenta e consapevole è in grado di smascherare gli automatismi, di promuovere il cambiamento e quindi, di migliorare il nostro globale stile di vita.
Il Problem Solving (soluzione del problema) rappresenta una strategia di base per affrontare situazioni problematiche che necessitano di una soluzione. Questa operazione comprende l’analisi delle alternative, potenzialmente valide, selezionando, tra le alternative possibili, quella più efficace. Lo scopo è quindi quello trovare una strategia che consenta di affrontare adeguatamente il problema per giungere ad una decisione (soluzione) più o meno rapida.
Risolvere i problemi e inventare soluzioni sono attività quotidiane comuni. Le difficoltà generalmente incontrate sono di tipo lavorativo, interpersonale, psicologico e pratico. Avere o acquisire capacità di problem solving significa in realtà riuscire a raggiungere i propri obiettivi e il primo passo da compiere è proprio quello di rendersi conto che c’è un problema da risolvere. Un problema esiste quando c’è un ostacolo al raggiungimento di uno scopo. Il problema, però, non corrisponde con l’ostacolo, ma a una condizione in cui, a causa della presenza di ostacoli o impedimenti, si è costretti ad individuare nuove azioni, chiamate soluzioni, per giungere alla soluzione. Per arrivare alla soluzione è quindi necessario un cambiamento del proprio modo di vedere e sentire le cose, oppure di una modificazione del proprio comportamento.
Le fasi del problem solving sono: 1- identificare il problema/obiettivo; 2- generare soluzioni; 3- valutare, scegliere e pianificare; 4- mettere in pratica il piano. Lo scopo del problem solving è quindi quello di riuscire ad integrare le risorse personali (logiche, critiche e creative) indispensabili per arrivare alla soluzione. Il problem solver, infatti, presenta le seguenti caratteristiche: la fluidità, la flessibilità, l’originalità, l’elaborazione e la motivazione.
In ambito psicologico le strategie di soluzione dei problemi si applicano in particolare ai problemi emotivi ed interpersonali. I problemi emotivi sono quei problemi in cui l’aspetto emotivo è predominante, nel senso che prevale in sé stessi il bisogno di ridurre o di eliminare il disagio, cioè di modificare emozioni sgradite in emozioni gradevoli e positive.
I problemi interpersonali, invece, nascono dalle difficoltà di relazione con gli altri (quando non si esprimono apertamente i propri obiettivi, o quando questi non sono condivisi da altri, oppure nel caso in cui non si riconosce agli altri il diritto di volere qualcosa). Una delle ragioni per cui facciamo fatica a risolvere i problemi emotivi e interpersonali è la confusione tra problema e disagio: il problema non è il disagio. Il malessere che sentiamo è piuttosto un segnale dell’esistenza del problema, l’espressione di bisogni o difficoltà che, non trovando soluzioni migliori, si manifestano appunto attraverso emozioni sgradevoli o dolorose.
È necessario pertanto riuscire ad identificare quali esigenze profonde si celano dietro le emozioni per arrivare a porci obiettivi realistici e non semplici negazioni dell’ostacolo.
L’assertività è la capacità di far valere le proprie opinioni e i propri diritti pur rispettando quelli degli altri. “L’assertività, tenendo presenti i propri obiettivi ed interessi, è la manifestazione più immediata e diretta di emozioni, sentimenti, esigenze e convinzioni personali, bilanciando, a seconda delle circostanze, l’aggressività e la passività. L’obiettivo è di ottenere il miglior vantaggio o il minor svantaggio per se stessi, sia nel breve che nel lungo termine” (Marcato et al., 2004).
Possiamo quindi distinguere tre diversi stili di comportamento: passivo, aggressivo, assertivo. La persona aggressiva è concentrata sui propri desideri senza badare ai diritti altrui e per fare questo utilizza qualsiasi mezzo a propria disposizione, anche distruttivo e violento. La tendenza è quella di dominare gli altri e l’unico obiettivo che si pone è il potere personale e sociale. Manifesta disprezzo degli altri e un mancato riconoscimento della dignità altrui. Alla base di questo tipo di comportamento vi sono componenti d’ansia accompagnate però da rabbia e ostilità.
La persona passiva è facilmente influenzabile e subisce le situazioni senza opporsi. Manifesta un’elevata ansia sociale e non riesce ad esprimere adeguatamente i propri bisogni e le proprie esigenze. Il suo obiettivo è quello di ottenere il consenso di tutti ed evitare qualsiasi forma di contrasto con gli altri. Nel breve termine questo tipo di atteggiamento è utile per ridurre l’ansia, ma finisce con il limitare notevolmente la capacità dì azione della persona.
La persona assertiva, invece, gestisce in modo positivo e costruttivo i rapporti interpersonali manifestando: un comportamento partecipe, attivo e non “reattivo”; un atteggiamento responsabile, caratterizzato da piena fiducia in sé e negli altri; l’affermazione dei propri diritti senza la negazione di quelli altrui; un atteggiamento non censorio avulso dall’uso di etichette, stereotipi e pregiudizi; la capacità di comunicare i propri sentimenti in maniera chiara e diretta. L’assertività può essere appresa e con la pratica migliorata. Le abilità sociali, infatti, non sono innate, perché così come si impara a leggere e a scrivere così si può acquisire la capacità di interagire con gli altri in modo più o meno soddisfacente.
Per diventare competenti socialmente, si deve essere in grado di modificare il proprio comportamento al variare del “dove”, “quando” e “chi” ma per fare questo ci vuole esercizio. Ricorrere a questo tipo di abilità significa soddisfare meglio le proprie esigenze sociali, comprendere il punto di vista altrui, raggiungere i propri obiettivi ed evitare conseguenze non desiderate. Esiste la possibilità concreta di apprendere, a qualsiasi età, nuovi modi di pensare e di conseguenza nuovi comportamenti.
Il cambiamento inizia nel momento in cui ci si assume la responsabilità di cambiare perché motivati da una forte spinta personale. Questo presuppone, però, una buona stima di sé e la capacità di valorizzare gli aspetti positivi dell’esperienza con una visione funzionale e costruttiva del proprio ruolo sociale. Per raggiungere tale obiettivo è necessario possedere un’immagine positiva di sé stessi e la fiducia nelle proprie risorse. Queste caratteristiche si possono esercitare intervenendo in quelle situazioni critiche e valutando le difficoltà non come occasioni negative di frustrazione, ma
Comunemente si ritiene che il Training Autogeno (T.A.) sia una tecnica di rilassamento ma non è esattamente così. Il rilassamento è da considerarsi come il primo di una serie di gradini. In realtà, il T.A. è una tecnica di cambiamento globale, che produce, in chi lo pratica, reali modificazioni fisiologiche e psichiche. Il cambiamento prodotto prende il nome di commutazione autogena.
Il termine commutazione si riferisce ad un cambiamento psicofisico globale, che tutti possono raggiungere dopo aver fatto l’esercizio. La distensione autogena è una condizione situata tra lo stato di veglia e quello di sonno; è per questo motivo che risulta facile scivolare nello stato di sonno o ritornare a quello di veglia, con pensieri intrusivi durante l’esecuzione dell’esercizio.
La commutazione autogena verrà raggiunta sempre più velocemente, man mano che si progredirà nell’allenamento. Quello che ci sembra importante sottolineare del T. A. è la sua unicità come forma di terapia di autoregolazione autonoma, cioè come forma di autocontrollo la cui somministrazione è regolata dal paziente.
Lo scopo del T. A. è quello di inglobare tutto il sistema omeostatico del nostro organismo. Gli obiettivi del T.A. sono di ridurre gli input del sistema nervoso centrale, come quelli generati durante un periodo di stress, e di facilitare il ritorno all’autoregolazione dell’attività viscerale, che si ritiene sia regolata dal sistema nervoso autonomo. È possibile riscontrare la riuscita del T.A. quando l’attività elettro-corticale indica che stiamo lavorando a livelli funzionali dello stato d veglia mentre l’attività cardiovascolare e ormonale rimane in un ambito basso paragonabile allo stato di riposo. La nostra vita ci mette di fronte a frequenti stati di tensione che, con l’andar del tempo, si possono cronicizzare, con tutti i disturbi fisici e psichici che ciò comporta. Spesso, per esempio, è proprio lo stress che giorno dopo giorno scompensa i nostri organi interni (stomaco, cuore, polmoni, ecc..).
Il training autogeno può facilitare il ritorno all’autoregolazione dell’attività di questi organi. Questa tecnica è rivolta, pertanto, non esclusivamente a soggetti con problemi psicologici o psicopatologici ma può essere applicato: a) a coloro che vogliono migliorare le proprie prestazioni, la propria salute e prevenire le malattie; b) per curare i disturbi psichici e psicosomatici.
Questa tecnica quindi è uno strumento di cambiamento che opera a tre livelli: 1) fisiologico (favorendo un riequilibrio del Sistema Nervoso Vegetativo e del Sistema Endocrino, entrambi strettamente connessi ai vissuti emotivi); 2) fisico (migliorando lo stato di benessere e di salute generale); 3) psicologico (aiutando a ristrutturare le proprie reazioni negative e migliorando alcuni vissuti psicologici).
La tecnica del T.A. rende le persone capaci di replicare nella vita di tutti i giorni quanto imparato durante gli incontri: i benefici dei singoli esercizi si sommano così nel tempo, consolidandone l’efficacia, oltre a manifestarsi nell’immediatezza della singola esecuzione degli esercizi. Per l’apprendimento del T.A. sono necessari motivazione, allenamento (per pochi minuti al giorno) e interesse a migliorare tramite un procedimento che vede le persone attive e vigili durante lo svolgimento degli esercizi.